
*Di Don Gianfranco Feliciani
Sarà una giornata storica quella del 4 aprile prossimo, quando Ignazio Cassis e il nunzio apostolico in Svizzera Martin Krebs riceveranno a Berna i promotori dell’appello per la riforma della convenzione Stato-Chiesa del 1968. Quale riforma? Com’è risaputo, nella convenzione una clausola stabilisce che il vescovo di Lugano debba essere scelto tra “sacerdoti ticinesi” (“ressortissants tessinois”), clausola che i richiedenti la riforma giudicano ormai anacronistica.
Si legge nel testo dell’appello: “Riteniamo che questa clausola sia superata e figlia del suo tempo, e impedisca a preti della diocesi di Lugano non svizzeri, o a vescovi svizzeri di valore (come l’attuale amministratore apostolico, mons. Alain de Raemy), di essere nominati ordinari diocesani a tutti gli effetti. Chiediamo perciò che la convenzione sia rivista e venga lasciata libertà di nomina al pontefice”. Evviva la libertà di espressione – anche se non sono molti quelli che si sono espressi, in tutto 2.200 firme – ma al di là dei numeri francamente non riesco a vedere il problema.
Trovo l’appello praticamente inutile, perché già oggi può diventare vescovo di Lugano un prete proveniente da un altro Paese – mons. Piergiacomo Grampa non viene forse da Busto Arsizio? – a patto che in seguito sia diventato cittadino ticinese. Certo, un prete africano presente in diocesi solo da alcuni anni non può essere eletto vescovo di Lugano, ciò pare più che ovvio; ma dopo un determinato tempo trascorso in diocesi, e divenuto cittadino ticinese, anche il prete africano potrà entrare nella rosa dei candidati all’episcopato. Nell’ottocento quel “ressortissants tessinois” poteva indubbiamente essere visto come un’ingerenza della politica nei riguardi della Chiesa, ma oggi, curiosamente, proprio quella clausola potrebbe offrirci nuovi e importanti spunti di riflessione per comprendere il mistero della comunione e della sinodalità ecclesiale. La scelta ultima del vescovo spetterà sempre al pontefice, è lui il garante dell’unità della Chiesa, e naturalmente dopo avere ascoltato i fratelli e le sorelle del popolo di Dio.
Non accada più, come troppo spesso è accaduto, che il papa scelga, invii, promuova e sposti i vescovi come suoi “carabinieri” personali, senza troppi riguardi verso la storia particolare, il territorio, gli usi e i costumi del gregge che il vescovo è chiamato a pascere nell’amore. Quel “ressortissants tessinois” potrebbe aiutarci a ricordare che il vescovo non “scende” solo dall’alto, ma “spunta” anche dal basso quale espressione e frutto della storia di un popolo. Quella volta a Milano, correva l’anno 374, il primo fu un bambino – con ogni probabilità imboccato da qualcuno – ma poi fu l’intero popolo a fare il nome di Ambrogio, non ancora battezzato, come vescovo della città! Fu il popolo a decidere…