di Greta Gysin *
La revisione del Codice penale riguardo i reati sessuali, attualmente al vaglio delle Camere federali, è quanto mai necessaria: la legge attuale non tutela a sufficienza le vittime e non contempla le pluriennali conoscenze scientifiche riguardo alle dinamiche di un’aggressione sessuale.
Sul principio sembrano essere (finalmente!) tutte e tutti d’accordo: imporre un atto sessuale, deve essere considerato un reato. La controversia nasce intorno al limite del consenso, in particolare se deve essere palesato il rifiuto oppure se deve essere esplicitato il consenso: è sufficiente che nessuna delle persone coinvolte vi si ribelli, o è necessario che ognuna acconsenta all’atto sessuale? Il Consiglio agli Stati ieri ha optato per l’opzione del rifiuto, il cosiddetto “no è no”.
Una decisione sbagliata, perché non considera il fatto che un’aggressione, specialmente se di natura sessuale, si fonda su uno squilibrio di potere e di forza. E questo indipendentemente dal fatto che a subire il reato sia una donna o no, e se ad espletare la violenza sia un uomo o no (le statistiche criminali di polizia ci dicono che nel 95% dei casi è così, ma questo non è il punto). Un’aggressione sessuale è sempre un sopruso, in cui la persona che subisce si trova in una condizione di paura e sopraffazione, oltre che di condizionamento psichico e manipolatorio.
Nella maggior parte degli abusi, la persona aggredita reagisce inconsciamente al trauma che sta vivendo come ad uno shock, entrando in uno stato di paralisi e distanziamento psichico e fisico (il cosiddetto “freezing”). È un meccanismo di difesa, un fenomeno inconscio e non controllabile, che rende la vittima incapace non solo di difendersi, ma anche solo di manifestare il proprio rifiuto.
È il motivo per cui il “no è no”, pur essendo un passo avanti rispetto alla legislazione attuale, non basta. Perché se la vittima della violenza sessuale è entrata in uno stato di paralisi, non sarà in alcun modo in grado di manifestare un rifiuto. Rimane però di fatto una vittima di una violenza sessuale. Che non si sia difesa, non abbia detto chiaramente “no”, non sia scappata, che non abbia urlato, lottato e picchiato non significa che fosse consenziente: significa piuttosto che, oggettivamente, non era in grado di farlo.
Il timore di un aumento delle denunce mendaci è confutato dai fatti: l’esperienza dei tanti altri stati europei che già conoscono il principio del consenso (attualmente sono già tredici), mostra che le denunce diffamatorie non sono aumentate e che tribunali e magistrature possono applicare adeguatamente questo nuovo paradigma. Contrariamente ai timori infondati che si sentono circolare, l 'onere della prova non verrà spostato sulla difesa. E prevale in ogni caso, sempre e giustamente, la presunzione di innocenza: resta alla magistratura dimostrare che non vi fosse consenso. In mancanza di elementi certi, continuerà ad imporsi quindi l'assoluzione.
D’altra parte sporgere denuncia per reati sessuali è e resterà un’esperienza traumatizzante e logorante. Parlare, spiegare, rivivere ogni dettaglio, giustificare ogni gesto e reazione, costa fatica e una sofferenza immensa alle vittime. Non è una cosa che si fa per diletto. È uno dei motivi per cui in Svizzera, malgrado vi siano circa 800'000 donne (e chissà quanti uomini) che hanno subito reati sessuali, solo l’8 delle vittime ha sporto denuncia. Sono i dati sconcertanti emersi da uno studio del gfs di Berna: ad oggi, in quasi 9 casi su 10, i reati sessuali non vengono neppure segnalati.
Questa è una realtà triste, che non possiamo semplicemente lasciar correre e che abbiamo il dovere di sradicare. Il prossimo passo necessario per farlo è modificare il codice penale perché – finalmente – non si metta più sotto accusa la vittima, per non aver potuto difendersi, ma l’aggressore che ne ha abusato. E, in questo senso, il “sì è sì” è l’unica via percorribile: è auspicabile che il Consiglio nazionale lo riconosca e riveda la decisione della Camera alta.
* consigliera nazionale Verdi