di Alberto Togni*
Un recente studio dell’Ufficio cantonale di Statistica attesta che i salari mediani in Ticino sono inferiori del 23,3% rispetto al resto della Svizzera, che questo divario è in crescita e che la quasi totalità di questa differenza non è giustificata da criteri oggettivi come la formazione, l’età, la posizione gerarchica ecc. Insomma, al contrario di quanto ci viene costantemente detto, semplicemente, qui le aziende pagano meno.
Le conseguenze?
In Ticino, nel 2020, ossia prima che cominciassero a verificarsi le conseguenze causate dalla pandemia e dalla guerra, quasi un quarto della popolazione, il 24,4%, viveva in un’economia domestica con un reddito imponibile inferiore alla soglia di rischio povertà (contro il 15.4% a livello svizzero). Il 28,9% della popolazione ticinese è impossibilitata ad affrontare una spesa imprevista di 2'500 CHF, il 18,3% ha un arretrato di pagamento (senza considerare gli arretrati dei premi dell’assicurazione malattia).
I giovani decidono di trasferirsi oltralpe, o di rimanerci una volta terminati gli studi e le casse dello Stato si svuotano per fornire una serie di prestazioni sociali a coloro che non hanno un lavoro o che, pur esercitando un’attività professionale, non riescono comunque ad arrivare alla fine del mese. Se evidentemente come Canton Ticino abbiamo poche possibilità di influire sul contesto internazionale che ha aggravato una situazione già delicata (anche se pure qui in realtà sarebbe più saggio anche per la nostra stessa economia riflettere se sia più utile aderire alle sanzioni europee o giocare invece seriamente un ruolo di mediatore nel conflitto in corso), quello su cui la classe politica può e deve immediatamente intervenire è il mercato del lavoro. Per troppi anni l’unica strategia è stata quella di attirare grosse aziende, senza alcun attaccamento al territorio, esclusivamente attraverso sgravi fiscali. Il risultato è stato l’insediarsi in Ticino di attività con posti di lavoro di bassa qualità, salari accettabili unicamente da chi vive oltrefrontiera e un forte aumento della spesa sociale dello Stato, ritrovatosi però con buchi milionari.
Ci presentiamo a queste elezioni con delle proposte alternative molto chiare, fra cui la necessità di ritornare a fare una seria politica economica, dove lo Stato prenda l’iniziativa promuovendo una coraggiosa e lungimirante politica industriale dedicata a specifiche attività produttive e di ricerca pubblica volta all’innovazione, assicurando uno sviluppo virtuoso dell’economia cantonale.
Vogliamo che l’Ente Pubblico, nelle sue diverse forme, sostenga le PMI locali, i piccoli artigiani e gli agricoltori legati al tessuto sociale e dichiari non gradite quelle aziende che invece si insediano nel nostro Cantone unicamente per sfruttare manodopera e territorio. Senza dimenticare di pari passo una migliore tutela delle condizioni di lavoro, che permetta ai lavoratori di vivere della propria attività, senza dovere dipendere da sussidi o essere costretti a partire.
* Consigliere comunale a Gordola, Candidato del Partito Comunista al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio