BELLINZONA - Si può davvero parlare di conciliabilità lavoro-famiglia per tutti? Lo chiedono in un’interrogazione al Governo Matteo Quadranti, Michela Ris, Natalia Ferrara (PLR).
“Sebbene gli asili nido abbiano aumentato i posti disponibili, il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è rimasto pressoché invariato. Le ipotesi sul perché le donne non tornino a lavorare sono svariate. Se in passato si pensava che fosse dovuto alla mancanza di offerta di adeguate strutture di cura degli infanti, analizzando i dati attuali c’è chi si chiede se forse le donne semplicemente non hanno voglia di tornare a lavorare”.
Per i tre firmatari dell’interrogazione, la questione andrebbe posta, piuttosto che sul piano della mancanza di voglia di lavorare, sulle condizioni e sull’effettiva garanzia che il sistema offre, alle donne in particolare, per conciliare famiglia e lavoro.
“Il Cantone, come noto, sussidia ampiamente le spese educative contribuendo nella misura del 55-66% e, come ricordato nell’articolo apparso sulla Domenica del Corriere lo scorso 26 febbraio, le famiglie possono arrivare a pagare anche 400 o 500 franchi al mese per affidare il proprio figlio a strutture di custodia extrafamiliare. Non solo. Le famiglie che beneficiano di una riduzione del premio di cassa malati ricevono una riduzione della retta, dedotto il sussidio universale, del 33%, mentre le famiglie che beneficiano di un assegno di prima infanzia ricevono un contributo che equivale alla totalità della retta (esclusi i pasti). Insomma, di aiuti e sussidi ve ne sono, soprattutto per le fasce al beneficio già di diversi aiuti sociali.
Ma se da un lato è vero che le rette possono essere anche basse, quasi irrisorie, per favorire le famiglie bisognose, è altresì vero dall’altro che si è diffusa la prassi “chi più guadagna più paga”. Ma vediamo come si traduce questo principio (con solo un paio di esempi anche perché non tutti i tariffari sono pubblicati):
-all’asilo nido comunale di Mendrisio una coppia con un reddito fino a 62.000 franchi pagherebbe una retta mensile di 420 franchi (pasti esclusi), mentre una coppia che ne guadagna 200.000 ne pagherebbe una non duplicata, neanche triplicata o quadruplicata, bensì settuplicata di 2.940 franchi (sempre con pasti esclusi). Chi scrive ritiene che la differenza, non certo irrisoria, possa spingere donne formate, ma anche donne il cui marito o compagno percepisce un certo reddito, a non riprendere la propria attività lavorativa che andrebbe, quasi integralmente, a coprire i costi della presa a carico del figlio da parte di terzi rispettivamente a coprire i costi direttamente collegati alla ripresa lavorativa (trasferte, pasti, etc.). Anche perché non va certo dimenticato che la donna si trova – in ogni caso – a dover decidere se vale la pena rinunciare al tempo con il proprio figlio per guadagnare al massimo un paio di mille franchi, rispettivamente a chiedersi se prediligendo la ripresa lavorativa sta davvero facendo il bene del figlio;
- per fare un altro esempio possiamo guardare il tariffario dei nidi d’infanzia LIS (Lugano Istituti Sociali); la tariffa massima giornaliera – che si arriva a pagare “solo” con redditi da 300.000 franchi è di 114 franchi, ossia di 2.394 franchi mensili. E se, per ipotesi, una donna di queste famiglie benestanti decidesse di riprendere un’attività lavorativa al 50%, per dedicare comunque del tempo al proprio figlio, non si vedrebbe diminuire proporzionalmente – e quindi dimezzare – la tassa, ma ne dovrebbe pagare quasi due terzi a fronte di uno stipendio dimezzato. Inutile dire che il dilemma “vale la pena rinunciare al tempo con mio figlio per un paio di mille franchi?” tornerebbe e forse non si arriverebbe neanche più a parlare di “un paio di mille franchi”. E comunque se lo scopo degli asili nido dev’essere quello della conciliabilità tra famiglia (qualunque famiglia) e lavoro (qualunque lavoro), questa conciliabilità dovrebbe valere per tutte le donne, indipendentemente dalla professione per cui hanno studiato e si sono formate, non senza sacrifici. Si tratta forse di tener conto che forse il contributo alla società e al gettito fiscale cantonale è dato anche da queste donne.
Ebbene, in tali circostanze ciò che davvero bisogna chiedersi è se questo sistema non tenda ad avere un effetto controproducente sul mercato del lavoro femminile e se lo stesso non sia dissuasivo, quantomeno in relazione a una parte di popolazione, segnatamente le fasce medio alte e più abbienti. Non dimentichiamo che per parte di queste donne sia loro, ma anche lo Stato, ha investito non poco per potersi formare e se la scelta di stare a casa con i figli è dettata da una mancanza di effettiva conciliabilità famiglia /lavoro sarebbe un vero peccato.
Ad ogni modo, anche per i redditi medio bassi il rischio è che si preferisca far due conti e restare a casa beneficiando di aiuti di Stato invece che rientrare al lavoro - fosse anche a tempo parziale - ma raggiungere un reddito disponibile che potrebbe far saltare detti aiuti”.
Tutto ciò premesso i tre firmatari chiedono al Governo:
- Non ritiene che la prassi in materia di redditi tenda a dissuadere le donne formate e provenienti da famiglie benestanti ad optare per una ripresa lavorativa?
- Non ritiene che la prassi in materia di redditi sviluppatasi tenda a conciliare famiglia e lavoro solo per una parte di popolazione?
- Il fatto che le tariffe per il tempo parziale non siano proporzionalmente ridotte non rischia di scontrarsi con il principio “conciliabilità famiglia/lavoro”?
- In conclusione, non si ritiene che lo scopo della normativa, non venga ossequiato creando disparità fondate sul mero reddito a scapito di altri fattori altrettanto meritevoli per una politica a favore delle donne, madri e professioniste?