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Tribuna Libera
30.01.25 - 10:350

Transizioni di genere: “Medici esecutori, poco giudizio critico, famiglie sotto pressione”

L’endocrinologo Fabio Cattaneo: “Si tende a ‘seguire l’onda’, rispondendo alle richieste della società, laddove sarebbero auspicabili maggior cautela e consapevolezza, considerando i rischi di un percorso ‘automatico’ dalle conseguenze irreversibili"

L’aumento delle richieste di transizione di genere in Svizzera, in particolare tra i minorenni, sta sollevando un acceso dibattito medico ed etico. Da una parte, la prassi attuale prevede un percorso standardizzato che porta rapidamente dai bloccanti della pubertà ai trattamenti ormonali e, in alcuni casi, agli interventi chirurgici. Dall’altra, cresce la preoccupazione per i possibili effetti irreversibili di queste terapie e per la mancanza di studi scientifici a lungo termine.

Mentre Paesi come il Regno Unito, la Svezia e la Finlandia hanno già introdotto restrizioni significative, in Svizzera il fenomeno è in espansione, con numeri in forte crescita e un approccio ancora poco critico. Sul tema è recentemente intervenuto il deputato Giuseppe Cotti (Il Centro), che ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere una moratoria sui bloccanti della pubertà nei minori e un monitoraggio più severo.

Ne parliamo con l’endocrinologo Fabio Cattaneo, che mette in guardia sui rischi di un percorso medico “automatico”, che potrebbe portare i giovani verso una transizione irreversibile senza una reale consapevolezza delle implicazioni a lungo termine.

Dottor Cattaneo, l’aumento delle richieste di transizione di genere in Svizzera, così come il fenomeno della "de-transizione", sta diventando una questione di grande attualità. Qual è la situazione nel nostro Paese e in Ticino, e quali le principali criticità che emergono da questi trends? 

“Non conosco le cifre esatte, ma dai colloqui con i colleghi coinvolti so che anche in Ticino il fenomeno è in crescita. Mi preoccupa il fatto che l’approccio medico alla “disforia di genere” sembri seguire dei canali piuttosto predefiniti, omogenei: richiesta della persona coinvolta – conferma della diagnosi (quasi senza eccezioni) da parte di uno psichiatra – avvio di un trattamento ormonale alla transizione di genere – terapie chirurgiche (per ora, solo in una minoranza dei pazienti).

Ho l’impressione che in Svizzera si sia vista finora poca capacità di giudizio critico su questo tema da parte dei medici: tendiamo a “seguire l’onda”, adeguandoci come semplici esecutori alle richieste di una parte della società. Questo malgrado attorno a noi in numerosi paesi (tra gli altri: Regno Unito, Svezia, Finlandia, Danimarca, Norvegia, quindi non esattamente nazioni considerate retrograde o conservatrici…) le autorità abbiano già tirato il freno: riconoscendo che i benefici a lungo termine dei trattamenti della disforia di genere non sono dimostrati, i trattamenti ormonali e chirurgici sono stati limitati a ristrette categorie di persone. Oppure vengono classificate come “a carattere sperimentale” e praticate solo nel contesto di studi clinici strettamente controllati”.

Quali sono i rischi a lungo termine legati all’uso dei bloccanti della pubertà nei giovani pazienti?  

“Le opinioni divergono. Si tratta di terapie utilizzate già perlomeno dagli anni Ottanta per curare una rara patologia pediatrica (la pubertà precoce centrale). In questo contesto, non sono noti gravi effetti indesiderabili del trattamento, anche se ci basiamo su numeri modesti e scarse informazioni sul lungo termine. Utilizzare questi farmaci in bambini sani, con un timing normale della pubertà, è tutt’altra cosa: abbiamo ancora meno informazioni sulla statura adulta, funzione sessuale e fertilità, solidità ossea, sviluppo neurocognitivo e psicosociale….

Soprattutto, l’assunto che ritardare la pubertà naturale con i farmaci bloccanti permetta di “guadagnare tempo”, dando la possibilità ai bambini con disforia di genere e alle loro famiglie di riflettere su cosa fare, è intuitivo ma non ha basi scientifiche. Sembra invece che questi trattamenti spingano verso il percorso di transizione: secondo uno studio olandese, il 97% dei bambini che ricevevano i bloccanti passavano allo step successivo di trattamenti ormonali. Osservando invece il decorso, con eventuale psicoterapia ma senza trattamenti ormonali, molti bambini si riconciliano con il loro sesso originario.

Una ricerca svedese del 2023 ha passato al setaccio 195 articoli scientifici sul tema, selezionandone 24 su criteri di rilevanza e qualità. La conclusione è che non vi è evidenza sufficiente per dimostrare un beneficio dei bloccanti della pubertà e dei successivi trattamenti ormonali su salute mentale, funzioni cognitive, composizione corporea e marcatori del metabolismo. Svariate altre analisi degli ultimi due anni giungono alle stesse conclusioni”.

Ritiene che i giovani e le loro famiglie ricevano informazioni adeguate sui pro e contro dei trattamenti di affermazione di genere? Le decisioni vengono prese con la dovuta consapevolezza o c’è il rischio che pressioni sociali e culturali influenzino il processo? 

“Il clima culturale e il mondo dei media da noi mi sembrano molto impregnati di testimonianze e prese di posizione unilaterali, favorevoli in modo acritico ai trattamenti ormonali e chirurgici della disforia di genere. Questo è in contrasto con il numero di associazioni di genitori che chiedono aiuto per le sofferenze persistenti dei loro figli dopo i trattamenti; con le voci “nascoste” (niente stampa e TV, sono quasi tutti unicamente online) di giovani che rimpiangono il loro percorso di transizione e desiderano “tornare indietro” (fin dove possibile; alcune conseguenze della transizione sono irreversibili); con alcuni specialisti coinvolti che chiedono più prudenza, come per esempio la Società svizzera di psichiatria e psicoterapia infantile e dell'adolescenza.

Le famiglie poi, hanno sempre dovuto portare il peso di un ricatto quasi insostenibile: qualunque freno ai trattamenti di transizione rischia di portare al suicidio dei giovani. I lavori degli ultimi anni (tra i quali quello di una psichiatra finlandese, che per anni è stata responsabile dei servizi nazionali per la transizione di genere) hanno invece mostrato che la frequenza dei tentativi di suicidio nei giovani con disforia di genere è molto bassa: più elevata che nei coetanei sani, ma simile a quella dei giovani con depressione, disturbi dello spettro autistico, personalità borderline… Esattamente  le stesse patologie di cui soffrono gran parte dei giovani con disforia di genere. Sembra quindi essere la psicopatologia soggiacente e non la disforia di genere a favorire la suicidalità. Nessuna dimostrazione che i trattamenti proposti per la disforia riducano il tasso dei suicidi”.

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