di Mario Galli *
Osservando due fondamentali indicatori dei costi del trasporto marittimo internazionale, ormai quasi ai minimi storici, si possono trarre considerazioni molto pessimistiche sul futuro dell’economia globale (si vedano, a tal proposito, i grafici allegati nella "Galleria fotografica", ndr)
Il Baltic Dry Index, misura del costo del trasporto marittimo di merci non liquide (tra cui in particolare minerale di ferro, carbone, bauxite, cemento, ecc.) e quindi efficace indicatore del commercio e dell’economia, è crollato a 676 punti. Si pensi che questo indicatore superò gli 11.000 punti, prima della crisi 2008-2009 e i 5.500 a inizio autunno 2021.
Il China Containerized Freight Index, misura del prezzo dei noli del trasporto marittimo dalla Cina verso il resto del mondo e, come tale, valido barometro della situazione economica cinese (soprattutto perché non soggetto ad “abbellimenti” statistici, a differenza di altri indici molto più pubblicizzati e visibili, come ad esempio quelli sul PIL) è disceso fino a 1.160 punti, ormai non lontano da quella base di 1.000 che, nel 1998, costituì la partenza delle rilevazioni, alla creazione dell’indice stesso.
Come sarà, dunque, l’economia, nel 2023? Per formulare osservazioni in merito, occorre compiere un esame complesso e articolato, partendo dai rischi maggiori, nelle diverse aree considerate, che vale la pena di elencare, perché ciascuno possa trarne le conclusioni che gli paiono più probabili.
L’anno appena iniziato si annuncia particolarmente critico per le tutte le maggiori potenze mondiali, essendo ormai venuta meno la spinta economica del biennio precedente, legata alle politiche estremamente espansive adottate da governi e banchieri centrali, a seguito della pandemia. La guerra in Europa e il riaccendersi dell’inflazione, inoltre, complicano ulteriormente lo scenario, per i riflessi geopolitici sul costo dell’energia e di altri prodotti da un lato, e per l’aggiunta di una grave condizione negativa ad uno scenario già estremamente problematico, dall’altro.
D’altronde, l’appuntamento con una crisi profonda era già stato più volte rinviato, nei precedenti lustri, grazie ad interventi di portata crescente, in ragione di situazioni di emergenza di inaudita gravità, almeno dal secondo dopoguerra.
Partendo dall’Unione Europea, in questa sintetica disamina, bisogna dire che essa sconta le conseguenze di guerra, incertezza sui costi dell’energia e crisi economica cinese (che colpisce soprattutto la Germania), tutte situazioni cui le deboli amministrazioni di Germania, Italia, Francia, non saranno in grado di porre mano in modo risolutivo, sia per ragioni di fragilità degli esecutivi in carica, che per l’impossibilità di attingere a nuove risorse finanziarie. Si tratta della situazione più delicata e aleatoria, tra quelle delle maggiori aree economiche mondiali.
Tra i fattori potenzialmente positivi, a breve termine, c’è la possibilità di una (almeno temporanea) ripresa dell’economia cinese, dovuta all’allentamento o eliminazione delle misure restrittive adottate per le recrudescenze pandemiche dello scorso anno. Essa fungerebbe da stabilizzatore per l’Europa, almeno per un po’ mentre, dal lato dei fattori negativi, si può pensare, soprattutto, ad un rallentamento del settore immobiliare, per l’impatto dell’aumento dei tassi di interesse che, a quanto pare, stanno contribuendo a ridurre l’inflazione, ma per tramite di una pericolosa distruzione della domanda.
Se dunque la prospettiva europea sembra quella maggiormente critica, è vero anche che essa non sarà facilmente modificabile dagli europei ma sarà, molto più probabilmente, la risultante di una serie di altre forze in atto negli Stati Uniti d’America e in Asia.
Negli USA, il problema del debito pubblico e, in particolare, del raggiungimento del suo limite invalicabile si ripropone nuovamente, a distanza di anni, di mettere in serio pericolo l’economia, ponendo all’amministrazione l’annoso dilemma se salvare i mercati azionario e immobiliare o quello, molto più importante, dei titoli di stato.
Non è certo una novità, visto che questa situazione si è riproposta tante volte, nell’ultimo ventennio. Stavolta, tuttavia, la questione mostra risvolti inediti, data la riluttanza ormai evidente, non più solo a parole, da parte di alcuni Paesi (BRICS, ma non solo), ad accettare ancora il dollaro come unica valuta di riserva del pianeta e date le divisioni politiche interne e geopolitiche innescate o rafforzate dal conflitto europeo.
La Cina, dal canto suo, è ormai costretta ad un passaggio definitivo e non più rinviabile, ovvero quello del cambiamento del modello di sviluppo, più volte annunciato come indirizzo futuro, ma di difficile attuazione in concreto. Un crescente peso della domanda interna e dei consumi privati, come una nuova spinta alla digitalizzazione dell’economia è quanto viene da tempo auspicato. Ciò è stato chiaramente ribadito durante il XX Congresso del Partito Comunista dello scorso ottobre. Sullo sfondo, peraltro, c’è il perdurare della storica crisi immobiliare iniziata nel 2020 (il peso del settore aveva raggiunto quasi il 30% dell’economia), eredità del periodo post crisi finanziaria del 2008-2009, a seguito della quale Pechino dovette rilanciare di nuovo il settore, per stimolare l’economia in caduta, a causa del crollo dei commerci internazionali.
Diversamente dalla maggior parte degli altri Paesi, però, la Cina può ancora permettersi, in una certa misura, una politica economica e monetaria espansiva e la chiusura del sistema cinese ad influssi e attacchi (politici, speculativi) dall’esterno, così come la forma di governo di tipo totalitario e il diretto controllo delle maggiori imprese e banche rendono questo proposito meno velleitario di quanto potrebbe apparire.
Infine, per concludere e per completezza, può essere utile rilevare quanto segue:
I punti critici di un Paese o di un’area possono diventare fattori a favore di altri. L’ottimo andamento dell’economia indiana (e di altre nazioni asiatiche minori), grazie anche alle iniziative del proprio governo, che sta attirando flussi di disinvestimento dalla Cina da parte di molte imprese straniere, è spunto di grande interesse per il futuro.
La forte crescita della Russia che, paradossalmente, ha trovato nella guerra un catalizzatore d’eccezione, ma che nel frattempo è anche molto attiva nella propria politica estera e sta ampliando le proprie relazioni internazionali a 360° (particolarmente interessanti gli sviluppi delle relazioni con la Turchia e con molti Paesi africani), preannuncia un potenziale ruolo di futura guida economica e non più solo politica.
La Turchia, nonostante la crisi in atto, sta vivendo un periodo di cambiamenti positivi e, grazie alla funzione di mediazione tra NATO e Russia nel conflitto europeo, sarà in grado di raccogliere diversi benefici, come un crescente peso politico internazionale e un ruolo chiave per la distribuzione di diverse fonti energetiche verso il continente europeo.
L’andamento e la fine del conflitto europeo potranno influire sulle tempistiche dei mutamenti in atto nell’economia mondiale, ma più difficilmente sulla linea di sviluppo dei medesimi, che appare orientata verso un sensibile ridimensionamento della globalizzazione e un rinnovato ruolo e peso degli stati nazionali, nella politica e, ancor più, nell’economia.
* Analista e consulente indipendente sui mercati delle materie prime (www.mercatiefuturo.com)