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Noa col libro che ha scritto
Cronaca
05.06.19 - 17:100
Aggiornamento: 17:36

Del Don: "Con Noa i medici, la società e la scienza hanno fallito. Per lei la vita era un incubo, ma dai problemi psichici si può guarire"

Lo psichiatra lancia un appello: "Non capisco come la gente pensi che non si possa guarire. Lasciarla morire è stato come un'eutanasia". E ci racconta come ha dissuaso una donna che voleva andarsene ed ora sta molto meglio

BELLINZONA - Dietro alla morte della giovane Noa, 17enne olandese che, schiacciata dalla depressione e dall’anoressia causate dalle violenze sessuali subite da bambina, si è lasciata morire di fame e di sete dopo essersi vista rifiutare l’eutanasia, c’è il fallimento dei medici che la curavano. Perché si può guarire, dice forte e chiaro lo psichiatra Orlando Del Don. 

La sua è un’intervista forte, sentita, che prova a indagare i meandri della mente. Un pugno nello stomaco, come questa terribile storia. “A livello di pelle la vicenda mi ha colpito. Non posso tollerarla, minimamente. Non entro nel dolore della ragazza, solo lei conosce la sua grandezza, ma parlo del fatto che una società non sa rispondere altrimenti che con la morte a una situazione che merita e può essere curata. Ci sono associazioni che vogliono far prevalere il diritto a fare ciò che si vuole della propria vita, e lasciare libertà è anche giusto, però prima bisognerebbe dare a quella persona l’opportunità di pensare in maniera libera, di uscire dal suo circolo vizioso. Una persona che soffre non può vedere soluzioni diverse alla fine del dolore, che è senza fine. Ma non è possibile che la società non abbia meccanismi di compensazione a momenti di sconforto che possono colpire chiunque. In quella fase è meglio lasciar passare, provare a trovare una soluzione almeno parziale al dolore. Una ragazza come lei in quella fase non poteva vedere un futuro roseo, la vita le sarebbe parsa non vivibile, brutta, un incubo infinito, però era il suo punto di vista: la vita è anche questo, non solo”.

Punta il dito contro i medici. “Hanno fallito, certo. Lo hanno fatto i medici, la società, la scienza. Non ho visto una reazione loro, ho l’impressione che ci si accodi alla questione dei diritti. Sono una bellissima cosa, quando si è in grado di esercitarli. Ma è come dare in mano una pistola carica a un bambino di cinque anni, bisogna mettere dei paletti. Una persona depressa che non vede via d’uscita può decidere da sola? In quel momento, non le si può sconsigliare di prendere decisioni, per trovare sollievo attraverso le cure? Lei aveva la depressione per la sindrome post-traumatica e l’anoressia, tutto pesante”.

Gli chiediamo cosa avrebbe fatto di fronte a Noa. “Mi sarei sentito in dovere di tutelarla come se fosse stata una figlia, una persona cara, in pericolo di vita. Era probabilmente una ragazza intelligente, più dei genitori e dei medici stessi, che aveva studiato, preparata, ma in quella fase io, che so come potrebbe andare a finire, posso nascondermi dietro al paravento del diritto di fare ciò che vuole? No, non posso, ed è gravissimo. Anche nei confronti di chi soffre, sapere che ci sono gli strumenti per star meglio, non possiamo rinunciare alla vita. Non lo voglio, non lo posso fare, ci sono i modi per aiutare”.

Insomma, vogliamo lanciare il messaggio che un momento di depressione succede a tutti e che non bisogna vergognarsi a rivolgersi agli esperti. “Se non ci fossero soluzioni sarebbe diverso, qui ci sono. Certo che quello che ha subito è terribile, Noa non ha nessuna colpa, è in buco nero, cerco di capire una situazione che può comprendere solo lei. Non metto in discussione le sue scelte ma chi l’ha curata o, meglio, non l’ha saputa curare. È un fallimento della società, della psichiatria, della scienza. Abbiamo strumenti validissimo per trattare depressione, anoressia, ecc! Rinunciare a far valere la farmacologia, la terapia psicologica, la psichiatria: nonostante la gente abbia paura dei disturbi psichici, si guarisce. Non capisco come si possa essere convinti che non si guarisca: si può!”.

Noa non ha subito un’eutanasia, ma per Del Don cambia poco. “È la stessa cosa. Come si può lasciar morire di fame e di sete una ragazza che può avere un’altra soluzione, che può scegliere? Ha preso questa strada senza aver potuto scegliere, era l’unica che vedeva dopo l’esperienza che ha vissuto. Un terapeuta deve far vedere al paziente che può percorrere vie diverse, una volta in cui si è resa conto di cose che prima non vedeva. La sua vita è cominciata malissimo, ma se penso a quanti bambini hanno subito violenze tremende, anche nei conflitti, e poi hanno saputo ricominciare davvero, glielo permette la loro giovane età. Quanti di loro, piano piano, hanno ritrovato il piacere di vivere. Questo salto di qualità si può fare, rinunciare vuol dire venir meno al dare speranza, al credere nell’altro. Se c’è una relazione terapeutica sana, non esiste, con gli strumenti di psichiatria e psicologia, che vada così”.

La ragazza, per Del Don, era molto intelligente. “Ha scritto anche un libro. Voleva dare un segnale forte, parliamo di qualcuno molto capace. Perché rinunciare? C’è qualcosa che mi sfugge, forse non ci dicono, non abbiamo tutti gli elementi. Mi sembra troppo sciocco da parte della società, dei medici, dei terapeuti, degli ospedali, spianare una strada terribile come quella”.

Alle nostre latitudini, garantisce, le situazioni si riescono a gestire, al limite lavorando in team. Ci racconta un caso capitatogli un paio d’anni fa, di una signora poco più di 60enne che desiderava ricorrere all’eutanasia perché non aveva più rapporti coi figli. “A farle dire così erano lo sconforto e la rabbia. Sotto la depressione covava la rabbia: attenzione, quasi sempre dietro la depressione c’è la rabbia, rivolta verso sé stessi”. Del Don non ha dato il certificato alla signora per presentarsi a associazioni per la dolce morte, spiegandole che in quel momento era in una fase depressiva, dunque non nelle condizioni di decidere liberamente. Nonostante la rabbia di lei, non ha ceduto, e assieme al medico di famiglia sono riusciti a gestirla. “Dopo mesi non mi ha più parlato di voler chiedere di morire. Non ha mai detto che aveva torto, ma non conta. Ha fatto la terapia per compiacermi, pensando che se fosse rimasta di quel parere le avrei dato l’autorizzazione. Però ha capito le sue dinamiche, e ha capito di non voler morire”. Tramite i servizi sociali, sono stati coinvolti anche i figli, con cui ha ristabilito un rapporto.

La prova che si può farcela. “Importante è che si ritrovi serenità”.

Paola Bernasconi

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