di Massimiliano Herber*
Ho incontrato per la prima volta Marco Borradori il terzo giorno di lavoro in RSI. Ero in “affiancamento”, seguivo un collega più esperto, e fui stupito dal garbo e dalla sincera attenzione che mi riservò. Nessun artificio, pareva una genuina curiosità.
L’exploit elettorale del 1999 gli era già valso in redazione il nomignolo di “Fidel Nastro” e io quel mese di luglio del 2000, lusingato dalla sua cortesia, osai uscire dal seminato (il servizio da realizzare riguardava i veicoli elettrici), vedendo sulla sua scrivania una copia de “La versione di Barney” gli chiesi se lo stava leggendo confessando di averlo molto amato. “Me l’hanno appena regalato - rispose gentilmente - lo leggerò non appena possibile”. Qualche tempo dopo ebbi modo di tornare nel suo studio a Bellinzona. Sulla scrivania si erano accumulati altri libri, ma notai ancora la copertina rossa del romanzo di Mordecai Richler e allora, azzardai nuovamente, “l’ha letto? È bellissimo…” La risposta fu identica a quella di qualche mese prima: “me l’hanno appena regalato, se lo consiglia lo leggerò non appena possibile…”. L’episodio mi permise di fare la tara, acquisire un po’ di utile distacco critico, ma quella simpatica recita fu il primo passo nella conoscenza di un personaggio che era già social prima ancora dell’esistenza dei Social media.
Era il “leghista in doppiopetto”, “il volto presentabile dei barricaderi di via Monte Boglia”, “il gentleman della Lega”, ma sembrava fuggire con leggerezza ogni etichetta, anzi pareva muoversi divertito con la sicurezza di un equilibrista sul filo della politica ticinese. In un’epoca dove resistevano gli “-ismi”, il suo essere più un attento amministratore che un politico con una visione strutturata (come altri tenori di quegli anni) sembrava ai miei occhi una debolezza, eppure interpretava il ruolo in modo diverso, cercando sempre il dialogo, il rapporto diretto con il suo interlocutore - fosse il giornalista o il cittadino elettore - e la sua libertà d’azione, la facilità con cui si muoveva sempre sotto i riflettori spiazzava. Se il leghismo era “uno stato d’animo” lui ne era l’interprete meno umorale e più mondano, ma sempre capace di una sintesi con cui confrontarsi.
La sua voce cortese, il tono mai alto, il rispetto riservato a ognuno, quel suo intercalare educato (“guardi…”, “vede…”) rivelavano una signorilità d’animo, ma quando c’era da mettere la faccia non si tirava indietro. Ricordo l’inversione a U su Thermoselect, la frattura nella Lega con Flavio Maspoli, il suo intervento quale presidente del Governo quando fu scorporato il DSS a Patrizia Pesenti, le polemiche per il silos Ferrari alle Bolle di Magadino, le elezioni da ultima spiaggia del 2007 e gli ottantamila preferenziali ricevuti per poi perdere, pochi mesi dopo, alle urne sulla Variante 95…
La sua dimensione non era solo spudoratamente pubblica, era veramente pop e non solo perché onnipresente a ogni evento del cantone. Ricordo, con un po’ di imbarazzo, un servizio sulla sua Porsche senza catalizzatore e pure di averlo offeso - mi confessò dopo un periodo di inusuale ritrosia - per una chiosa osé riguardante una breve liason festivaliera.
Era un mediatore gentile che cercava il dialogo e sembrava sempre rifuggire lo scontro, le polemiche parevano offenderlo, ferirlo intimamente. L’unica volta che abbandonò il fioretto per la sciabola fu a un faccia a faccia al Quotidiano per la corsa al sindacato di Lugano. Quando il confronto finì, in studio e in regia eravamo tutti attoniti, fu lui a rompere il silenzio chiedendomi, sornione, prima di lasciare gli studi di Comano, “allora come sono andato?”. Come era andato lo sapeva benissimo e la domenica elettorale dell’aprile del 2013 non aspettò i risultati definitivi; arrivò in Piazza Riforma in anticipo rispetto a quanto previsto: passeggiava sorridente tra la folla, come un festeggiato che non si preoccupa d’aver rovinato la festa a sorpresa organizzata per lui. Ancor più dei successi elettorali e dei risultati raggiunti, erano le testimonianze di affetto, il contatto e la vicinanza delle persone la sua gratificazione, la ragione del suo pluriennale impegno politico, dell’ardore e dell’abnegazione che per quasi trent’anni ha dedicato alla cosa pubblica.
L’ultimo suo Whatsapp riguardava un approfondimento sull’Icaro di Finzi Pasca e a rileggerlo ora mi rendo conto che forse, nei quasi diciannove anni di frequentazione professionale, a colpirmi di più di Marco Borradori era un’intima irrequietezza che non mi sono mai rassegnato a relegare alla semplice onnipresenza mondana. Quel suo ascolto gentile, quella sua candida curiosità per l’altro, quel ritrovarlo ovunque - dagli aperitivi ai vernissage, dalla prentazione di un libro a un carnevale, dal LAC a una sagra - erano l’indice di una fame di vita che aveva un che di sfuggente, come una corsa perenne alla ricerca di un’ultima e profonda soddisfazione, lontana quella sì dal clamore della pubblica piazza… Ed è questa inafferrata irrequietezza a renderlo oggi ancora più caro e più struggente la tristezza per la sua scomparsa.
Che da lassù, possa vegliare sul Cantone e sulla città che hai amato, chissà che discussioni con il Nano… salutami il Giorgio… e ora, lo so per certo, saprai anche come finisce “La versione di Barney”.
*giornalista RSI (da Facebook)