Usare lo strumento del referendum popolare è legittimo e democratico, ma bisogna spiegarne il perché.
Per questo, curioso, ho sbirciato tra le carte dei referendisti contro il credito per la sperimentazione del progetto La scuola che verrà per scoprire:
– che il titolo del referendum è “No allo smantellamento della scuola pubblica”;
– che si parla di “sperimentazione senza criteri, obiettivi misurabili e con un risultato già predefinito”;
– che “L’86% dei docenti non si è espresso sulla riforma”;
– che La scuola che verrà sarebbe “una riforma che spinge le competenze degli allievi al ribasso”;
– che invece ci vorrebbe “una riforma urgente della scuola dell’obbligo, ma assolutamente non in questo modo”.
Ci vuole una mente ben contorta per sostenere che investire 34.5 milioni all’anno in più nella scuola pubblica a riforma generalizzata significhi smantellarla. Qualche referendum l’ho lanciato o sostenuto anch’io, ma normalmente quando parlavo di smantellamento è perché combattevo contro dei tagli, non dei maggiori investimenti. Come direbbe Crozza, non è che aumentando il numero di infermieri e medici negli ospedali si peggiorano le cure. La logica di questa assurdità si commenta da sola.
Come deciso dal Gran Consiglio, la valutazione della sperimentazione sarà perfettamente scientifica, come lo sono le valutazioni fatte dai nostri enti universitari. Oltretutto in questo caso sarà un ente non ticinese a svolgerla, con criteri e obiettivi scientifici, com’è normale per le università svizzere, giudicate da tutti tra le migliori al mondo. Vogliamo mettere in dubbio anche la qualità degli atenei rossocrociati?
Tutti i docenti della scuola dell’obbligo hanno potuto discutere della riforma nel corso di decine di incontri, hanno potuto partecipare per iscritto alla consultazione, si sono espressi tramite le loro rappresentanze. Molte delle loro osservazioni sono state ascoltate e inserite nel modello sperimentale. Chi invece non si è espresso in nessuna delle due consultazioni organizzate sono UDC e Lega dei ticinesi, da cui provengono diversi promotori. Un po’ imbarazzante criticare chi non si sarebbe espresso dopo aver fatto scena muta per anni.
Che La scuola che verrà sarebbe “una riforma che spinge le competenze degli allievi al ribasso” è una triste tiritera che gira da 4 anni, sulla quale ho dovuto ripetere più e più volte che si tratta di una menzogna. La riforma non spinge affatto le competenze verso il basso, ma dà ai docenti strumenti per essere vicini all’individualità degli allievi, quelli forti e quelli più deboli. Ore con metà classe o doppio docente (mezza giornata a settimana alle scuole dell’infanzia e alle scuole elementari, 6 lezioni settimanali in I media, 8 in II media, 10 in III media e 12 in IV media) e più spazi di collaborazione tra i docenti mediante un nuovo monte ore speciale permettono di gestire le differenze e l’eterogeneità meglio di quel che accade oggi.
La riforma “urgente” che il comitato referendario propugna come alternativa agli investimenti combattuti con il referendum è contenuta in un’iniziativa parlamentare Morisoli-Pamini che, tra l’altro, con un costo di certo non inferiore a quello preventivato per La scuola che verrà vuole reintrodurre una selezione precoce degli allievi a 10 anni, quando i bambini non hanno ancora potuto esprimere le loro capacità, facendo un salto indietro nella modernizzazione della scuola di oltre 40 anni, vuole trasformare la scuola in azienda, con direttori manager che non vengono dall’insegnamento, e naturalmente vuole denaro pubblico per finanziare le scuole private.
Queste sono le non ragioni di questo referendum. Come diceva una volta una fortunata pubblicità, meditate gente, meditate.
*Direttore Dipartimento educazione cultura e sport