di Sergio Morisoli*
È convenzione, abitudine, comodità e forse una punta di pigrizia definire il sistema che regge le nostre società occidentali con l’appellativo di democrazie liberali. Democratiche lo sono certamente, anche se la democrazia è in affanno di legittimità, di rappresentanza, di partecipazione e di efficacia un po’ ovunque. Che siano anche liberali e che lo possano rimanere, cominciano a sorgere dubbi, preoccupazioni e tendenze contrastanti pericolose. Un punto fondamentale di questo lento e inesorabile declino (della parte liberale) è la scomparsa del “borghese” e della weltanschauung borghese, con conseguente statalizzazione della società prima, e nascita di un populismo insoddisfatto poi.
Ma quale borghesia?
Il Governo non governa (quando va bene amministra), il Parlamento si è smarrito (sogna maggioranze compassate), i partiti sono impotenti e frustrati (sanno che conta di più l’assenteismo e le liste civiche o senza intestazioni), i cittadini rassegnati (spesso incazzati). Finora ritenevamo, erroneamente, che la causa fosse politica in senso “alto”: la caduta delle ideologie, uno smarrimento temporaneo fino a nuove identificazioni e raggruppamenti. Invece no, almeno per il Ticino, le ideologie con i raggruppamenti partitici sotto quelle bandiere ideologiche permettevano di nascondere un malessere sociologico più profondo. Dal tramonto delle ideologie, alla notte che ne è seguita, al XXI secolo ormai inoltrato, si mette ora in luce un fatto: in Ticino le categorie sociali a cui le ideologie si riferivano non sono mai esistite. In poco più di un secolo siamo passati da un popolo che lottava per vivere e sopravvivere a un popolo proletario benestante.
Se ci guardiamo attorno scopriamo che la borghesia e la politica borghese non è esistita, scopriamo che i proletari e la politica socialista non è esistita. Al contrario c’è stata una deriva individualista e una omologazione statalista. Perché? Per sviluppare una politica borghese ci vogliono i borghesi; per sviluppare una politica socialista ci vogliono i proletari.
Il Ticino non ha mai avuto e continua tuttora a non avere numeri rappresentativi (massa critica) né di padroni borghesi «suoi» educati al capitalismo, né di operai «suoi» cresciuti e educati al socialismo (forse eccezion fatta per alcuni delle regie federali che furono…). Quelle che noi chiamiamo politica borghese o socialista nostrane, sono entrambe degli scarabocchi che i partiti ci hanno balbettato per anni per dividerci e incassare le loro quote di voti e di potere. La maggior parte dei «padroni» veniva da nord e più recentemente anche da sud; e non vota. La maggior parte degli operai da sempre viene da sud, oggi frontalieri; e non vota. Di politica non se ne sono mai occupati molto. I ticinesi? La loro vita, in molti e per parecchi decenni, l’hanno spesa rincorrendo posti nello Stato, parastatali e nelle grandissime regie federali (poste, telefoni, ferrovia, officine, militare, dogane), o nel privato per grandissime banche e assicurazioni che avevano comunque logiche statali, essendo che i quadri incrociavano affari tra carriera militare e quella aziendale. Attenti, non è un giudizio di valore. È uno schema sociale che ha funzionato: agli indigeni lo Stato, agli stranieri l’economia (il secondario). Non solo ha funzionato, ma ci ha permesso di stare bene quasi tutti, ma da un po’ è finito per sempre.
Ora ci troviamo davanti alla necessità di ricostruire e per farlo è necessario ammettere che la ricchezza non ci ha fatto diventare borghesi, ma proletari benestanti. In altre parole, siamo un ampio ceto medio, dove quelli del livello inferiore temono di diventare poveri e quelli del livello superiore iniziano a capire che la loro crescita è al capolinea. Siamo una classe di “reclusi” tra gli “inclusi” quelli che gestiscono il mondo e gli “esclusi” quelli che nella mobilità sociale non vanno né in su né in giù. Siamo invasi, non solo di lavoratori stranieri, ma ci lasciamo imporre e subiamo politiche di sinistra dall’estero e abbracciate all’interno. Ci vorrebbe una vera politica borghese per risolvere i problemi. Ma la lacuna è immensa: le politiche liberal conservatrici, il DNA della borghesia, non le ha insegnate, tramandate e allevate più nessuno.
Il concetto svizzero di «Bürgerlich» più volte dato per scontato e implicitamente ritenuto acquisito, usato per sintesi dai media, è un errore. Specialmente in Ticino. Cosa oggi significhi «Bürgerlich» per i cittadini che hanno meno di 50 anni non è dato di sapere. Si parte da un (pre)concetto come se la «Bürgerlichkeit svizzera» fosse ancora un dato di fatto naturale visibile nella realtà. Cosa sia una politica borghese o i valori borghesi, ecc… è tutt’altro che scontato. Esiste una politica borghese se esistono i borghesi che fanno politica, e qui sta il punto. Quanti, quali e chi sono i veri borghesi oggi? Chi di loro è in politica? Una borghesia si forma se vi è una chiara prevalenza di persone che testimoniano coi fatti: la proprietà privata, l’intraprendenza economica propria, la solidarietà privata reciproca, la sussidiarietà dello Stato, il radicamento territoriale; caratteristiche non certamente in crescita negli ultimi decenni. Del resto, come fa notare Deirdre McCloskey, non sono certo le virtù borghesi: “parsimonia, frugalità, decoro, prudenza, moderazione, benevolenza, coraggio, speranza, iniziativa e religiosità a dominare in quest’inizio secolo”. Il pensiero comune e politically correct va da ben altra parte. In Ticino, ma anche altrove, non è la ricchezza borghese a mancare, ma la cultura borghese. Lo si vede nei partiti, in Gran Consiglio e in Governo. Il proletariato benestante non vuole più la lotta di classe, non è rivoluzionario, è statalista e protezionista e vuole mantenere ciò che ha raggiunto. (bye bye Marx, Lenin e Co.)
Lotte di classe?
Si ritorna ad udire perfino alle nostre latitudini discorsi di contrapposizioni dure, di lotta di classe, di rottura, di divisioni tra buoni e cattivi, di sfruttati e sfruttatori, discorsi allarmanti dai contenuti e dai concetti che definirei neo-estremisti. Siccome l'orripilata lotta di razza non è più nemmeno pronunciabile (per fortuna!), sta sbocciando di nuovo qua e là, la più scic e intellettualmente «nobile»: lotta di classe (non meno mortifera). Ma tra quali classi e classi? Vi è che le classi non ci sono più, sono confuse e si compenetrano.
Ammesso e non concesso che la «borghesia» sia come tale una classe ancora viva (dove?), questa è totalmente in crisi, e forse da questa crisi deriva anche la crisi più generale. Non perché i borghesi siano più poveri o perché guadagnino meno, o perché i mercati finanziari, il Covid, la guerra li ha spazzolati. No, penso piuttosto per via che il ruolo sociale e economico della borghesia si sia smarrito. Il borghese non sente più il suo ruolo come una necessaria partecipazione al bene comune: generare posti di lavoro, ricchezza da distribuire, solidarietà locale, mecenatismo, innovazione imprenditoriale, rischio innovativo, caritativa. Si accontenta da anni di pagare le imposte, ritenendo erroneamente che tutti questi scopi sociali, una volta a lui conformi e cari, li assuma lo Stato con la sua burocrazia ridistributiva. Il borghese (quando esiste…) pensa quindi ai suoi stretti interessi, si isola e con lui la «classe» borghese si atomizza finemente al punto da scomparire. Vuol starsene in pace e senza radici, al punto da essere politicamente e socialmente ininfluente, ma nello stesso tempo diventa preda di chi i soldi li vuole «andare a prendere dove ci sono», cioè da lui.
Delegando allo Stato una lunga serie di spazi di libertà e di azione, oltre ai soldi tramite le imposte pagate, il borghese medio è convinto di poter stare lontano dalla politica, o di vederla solo con la coda dell'occhio. Si dimentica che se lui non si occupa di politica locale sarà presto o tardi la politica ad occuparsi anche in modo improprio di lui, della sua attività economica e del suo patrimonio. La borghesia, intesa come «classe» di chi si ingegna per conto proprio sia economicamente che socialmente senza nulla chiedere allo Stato, è in estinzione. Si è fatta sostituire dallo Stato e dai suoi uffici proprio paradossalmente in ciò che la caratterizzava di più: fare da pioniere politico nel modo e nei metodi di produrre ricchezza (economia) e far partecipare spontaneamente anche gli altri e i meno fortunati al proprio successo (solidarietà). Ha dimenticato che la sua azione «nobile» di creare lavoro e prosperità congiunta alla solidarietà diretta era la base per la sussidiarietà, cioè fare intervenire lo Stato il più tardi possibile.
Scompare, non perché è diventata cattiva borghesia o altri aggettivi figli dell'invidia di sinistra, ma perché fatalmente ha creduto che bastasse dare molti soldi allo Stato, tramite le imposte, per mantenersi in vita come categoria sociale dirigente e rispettata. Il welfare state ha distrutto la borghesia ma non è più in grado né di salvare i bisognosi ( in aumento) né di mantenere le promesse ideologiche e egualitarie (non ci sono più i soldi); è inefficace, inefficiente e costoso un po’ ovunque.
Sull'altro fronte, ammesso e non concesso che ci sia ancora una classe operaia, ma sarebbe meglio dire di impiegatizi, che succede? Succede che “in fondo si battono per diventare borghesi pure loro”, come diceva già Charles Peguy (era socialista!) un secolo fa ne «Il danaro». Quando il lavoro, la rimunerazione e la vita sono sconnessi sorgono i problemi. Se il lavoro è pubblicizzato come male indispensabile anziché un bene, e occorre battersi, per farne di meno; se la rimunerazione non è mai abbastanza e non c'entra con il lavoro ma con il poter spendere di più; se la vita inizia solo la sera dopo il lavoro e nei week end mentre la settimana è una schiavitù, se a lavorare tocca solo ai fessi che mantengono i lazzaroni; allora più che di classe operaia bisognerebbe parlare di cittadini smarriti che diventano per forza frustrati e indignati perché non coordinano più il senso della loro esistenza. Stiamo in guardia noi che subiamo i bilaterali e viviamo proprio sul confine europeo tra Stati in fallimento e Stati per ora ancora virtuosi. Non facciamoci prendere dalla logica ideologica, fallimentare ma rinascente, della lotta tra capitale e lavoro e quella tra padroni e operai che paralizza e impedisce di sfruttare le opportunità del mercato, e danneggia la vita di tutti. Ma stiamo in guardia anche dalle nuove idologie totalitarie, forse anche peggiori di quella di classe, ad esempio: quelle ambientaliste o quelle che riducono l’uomo a essere un organismo con pari diritti e doveri di piante ed animali o quelle salutiste che promettono l’immortalità senza sapere perché campare a lungo ci conviene. Il novum è l’intreccio di totalitarismi vecchi e fallimentari con presunti dirigismi nuovi e carichi di demagogia, la pandemia prima e la guerra ora ne sono un terreno molto fertile. Il Ticino non è così isolato e protetto da queste tentazioni di organismi politici modificati geneticamente, anche le «lotte» manichee tra presunti buoni e cattivi, sono ormai globalizzate.
Se da una parte il liberalismo sta perdendo i suoi attori protagonisti, i borghesi e la borghesia; dall’altra, da tempo, per tentare di salvare (inutilmente) voti, sta interpretando un copione ormai molto distante dallo script originale. Questo mix fallimentare sta spalancando le porte a chi di liberale ha ben poco da offrire, e la democrazia la sa usare con uso e consumo poco “sostenibile”. In un libro di grande successo di Patrick Deneen (“Why Liberalism Failed” 2018) si può leggere: “Il liberalismo ha fallito non perché non ha raggiunto l’obiettivo, ma proprio perché è rimasto fedele a sé stesso. Ha fallito perché ha avuto successo. Diventando ‘sempre più sé stesso’, il liberalismo ha generato patologie che sono a un tempo distorsioni e realizzazioni della sua stessa ideologia”. In breve, non serve più al capitalismo, ha perso i valori borghesi, ha sostituito la rigorosa ricerca della verità tramite il dubbio dogmatico intriso di certezza passiva propria al relativismo, ha sostenuto il libertinaggio dei costumi distruggendo i legami tradizionali non statali della società civile, ha favorito l’intromissione politica nel mercato, si è fatto paldino dei cosiddetti “biodiritti” lasciando perdere il classico e naturale equilibrio tra diritti e doveri; e per finire non ha disdegnato di rincorrere i vari populismi.
Soffriamo di un male oscuro
Talmente ci siamo abituati e assuefatti, tanto che non ce ne accorgiamo quasi, riusciamo a malapena a scorgere il disorientamento che sta provocando. Si tratta di un’aspettativa e una pretesa nei confronti della politica assolutamente irragionevole e smisurata in termini di soluzione dei problemi della vita e di alleggerimento della fatica del vivere. Abbiamo delegato talmente tanti spazi di libertà e responsabilità alla politica che questa e coloro che la animano non possono fare altro che sentirsi investiti di un potere salvifico; e quindi sentirsi addosso il dovere di agire di conseguenza: à tous prix. Viviamo nella logica, ormai consolidata e accomodante, che è quella di credere che il benessere nostro e la prosperità del Cantone dipendano da chi vince le elezioni, da chi siede in Governo. È questo pensiero il collo di bottiglia che ci impedisce di trovare soluzioni alla crisi e promuovere un rilancio. Siccome alla politica e quindi allo Stato abbiamo praticamente delegato tutto ciò che si sviluppa «dalla culla alla bara»; le lotte partitiche da anni non riguardano più la conquista della legittimità politica necessaria per esercitare il potere e far prevalere una visione e quindi un progetto. No, la lotta si sta riducendo al potere fine a sé stesso, cioè alla conquista di una maggioranza (sempre più risicata) per poter avere un vantaggio nella spartizione e nella gestione materiale dell’apparato statale che serve all’esercizio del potere: siano essi posti amministrativi, lavori, appalti, sussidi, favori, sedie dirigenziali del parastato o altro.
Una politica ripiegata su sé stessa in lotte di potere interne ai partiti o in derby elettorali infiniti. Dall’inizio del nuovo secolo si fa moltissima “elezione” e si fa pochissima “politica”. Come se vincere le elezioni bastasse per trovare soluzioni praticabili.
Cosa fanno i partiti oltre che a rincorrersi in gare elettorali infinite per vedere chi vince ai punti? E poi? Sia chi vince, sia chi perde si siede per tirare il fiato, come se il lavoro da fare fosse dietro le spalle (la corsa elettorale) anziché davanti (il traguardo politico). Sfiancati. L’energia immessa per il prestigio o l’onore di vincere o per non perdere elettoralmente, ha ormai sorpassato di gran lunga l’energia dedicata alla ricerca di proposte politiche giuste e buone per la collettività. Con la scusa che le ideologie sono morte, i partiti hanno buttato nella spazzatura in fretta e furia anche gli ideali, seppellendo con essi il desiderio di pretendere qualcosa che vada oltre la solita volgare spartizione del potere. Fuggono dagli ideali nascondendosi dietro al pragmatismo, riducendo la politica a tubi, cavi, tetti, pannelli, bande larghe, banchi, sedie, letti, strade, sentieri, edifici, girandola ridistributiva di soldi eccetera da appaltare, da acquistare e da spartirsi. Il mercantilismo partitico sta facendo fuori l’utilitarismo civico e politico.
Nulla di nuovo, o di originale; basta guardarsi attorno oltre i nostri confini. A mio modesto parere però la nostra crisi deriva, oltre che dalle difficoltà oggettive esterne, anche dal fatto che i partiti, da troppo tempo, hanno sostituito la gara per ottenere il potere per aiutare qualcuno, con la lotta per il potere necessario per accaparrarsi qualcosa. Nei programmi, basta leggerli, e nei dibattiti interni hanno rimosso i concetti di rilancio e di crescita (ma anche di giustizia) necessari a creare il futuro; sostituendoli con eufemismi e perifrasi (inclusioni, sostenibilità, accoglienze, egualitarismi e decrescite felici) che conducono solo ad un punto comune: la spartizione dell’esistente. Hanno cioè tolto i fini politici per concentrarsi sulla proprietà o sull’usufrutto dei mezzi pubblici. Ottenere voti spiegando i fini concreti delle proprie politiche, magari visibili solo a medio-lungo termine, è maledettamente più difficile che fare voti promettendo di distribuire ai propri amici e simpatizzanti i mezzi per raggiungere dei fini illusivi mai né pensati né fissati. Questo è il dramma del momento in cui tutti i nostri partiti ci son dentro, conti pubblici compresi.
Del resto, ce lo insegnava già Ortega y Gasset all’inizio del secolo scorso, il sistema occidentale di democrazia liberale significa una cosa molto precisa. La democrazia serve per far scegliere al Popolo a chi consegnare il potere, il liberalismo per fissare quanto potere dargli. All’alba di questi anni ’20 su entrambi i lati di questi concetti c’è ormai confusione e invasione di campo. Siamo nei guai. Ci vorrebbe un’élite lungimirante di rilancio, ma le “élites”, non c’entra né il Covid né l’Ucraina, si stanno autodistruggendo da ta tempo e da sole ovunque con il “fake”: quella politica con promesse false, quella accademica con modelli falsi, quella economica con crescita falsa, quella mediatica con notizie false. Quanto alle e istituzioni adatte a questo scopo, mi paiono sgangherate. La scuola è alla ricerca di sé stessa e punta all’egualitarismo e all’ingegneria sociale; i partiti sono sempre di più agenzie elettorali invece di centri di produzione di proposte politiche; le famiglie sono, dopo la distruzione delle nazioni, dei popoli, delle imprese, l’ultimo ostacolo e la prossima resistenza di “libertà” da eliminare. Per non parlare delle aziende che sono demonizzate o nella migliore delle ipotesi un male necessario.
Senza crescita sparisce sia la democrazia che il liberalismo
Stiamone certi, la decrescita felice ci porterà dritti nelle braccia di nuovi totalitarismi. Per non ritrovarci come la “rust belt” americana, c’è solo un modo: puntare su una scommessa forte. Cioè creare l’intesa civile oltre la politica partitica per sostenere un “Patto paese” per la crescita; cioè produrre maggiore reddito da lavoro (salari) e da impresa (utili); occupazione (posti di lavoro per residenti) e aumentare la produttività (rapporto in put e out put economico). Non si scappa, occorre invertire la rotta. Dobbiamo abbandonare la fissa della ridistribuzione garantista attraverso lo Stato, per abbracciare la fissa della creazione di ricchezza attraverso il lavoro. Non abbiamo bisogno di ridistribuire diversamente ciò che c’è già e scarseggia, urge creare valore aggiuntivo da ridistribuire. Tutti gli studi ci dicono che siamo bassi in produttività, innovazione, attrattività, valori aggiunti e marketing territoriale, punti essenziali da ricuperare in fretta. A supporto di ciò ci vuole una modernizzazione dello Stato: da Stato estensivo a Stato intensivo; o se si vuole dallo Stato assistenziale allo Stato della crescita.
Il ruolo della spesa pubblica va ridimensionato e soprattutto ormai sfatato il mito dell’effetto moltiplicatore che essa genererebbe. Infatti, toglie a qualcuno per dare ad altri, ma non genera più nulla in più. La globalizzazione e l’accentramento delle decisioni politiche hanno annullato l’effetto leva un po’ ovunque in Occidente, figuriamoci localmente da noi! Per questo occorre fare solo ciò che è necessario, non ciò che la politica fantasiosamente suppone potrebbe essere “nice to have”. La spesa pubblica sta diventando il problema, non la soluzione. La sua inefficienza e inefficacia in molti campi è lì da vedere. Rispetto a 10 anni fa, spendiamo centinaia di milioni all’anno in più; e con ciò siamo più sicuri, più sani, più istruiti, più mobili o più benestanti? No, non hanno migliorato il malessere sociale e l’esclusione che crescono in continuazione; come i milioni spesi in più all’anno nell’educazione non hanno migliorato la prospettiva per i giovani, la loro qualifica e il mercato del lavoro. Quindi da una parte spendere meno e meglio; dall’altra lasciare più soldi nelle tasche dei cittadini e delle imprese.
Ci vogliono condizioni nuove per rilanciare la crescita ed è compito della politica e ci vogliono buoni progetti ed è compito del privato; lo Stato tutto fare con ruoli ambigui spreca solo soldi e tempo. Ripeto, non sono i tempi dell’abbondanza, un po’ a te e un po’ a me; sono i tempi delle azioni efficienti ed efficaci. Quindi occorre scegliere chi è più efficiente ed efficace a fare cosa; significa decidere, selezionare, agire, esporsi e rischiare. E i privati lo fanno meglio dei politici, perché lo fanno con i loro soldi non con quelli degli altri e lo fanno per guadagnarci. Occorre uno schema di ragionamento nuovo: si devono fare le cose utili, necessarie e che hanno probabilità di successo; non per salvare ciò che da tempo sarebbe già sparito, o imbarcarci in finte iniziative economiche che altro non sono che accanimento terapeutico. I soldi caso mai ci vorrebbero per supportare quella “creatività distruttrice” economica di mercato cara a Joseph Schumpeter; unico processo che crea ricchezza, competitività e benessere costanti.
Il liberalismo riprenderà quota se, invece di rincorrere neo-utopie politically correct, tornerà a riattivare i suoi due motori principali per produrre prosperità: la famiglia e l’azienda, garantendogli un contesto di libero mercato e di libera iniziativa. Smettiamola perciò di confondere la capacità di stare assieme con la delega allo Stato dell’obbligo di tenerci assieme.
*capogruppo UDC