di Mauro Dell'Ambrogio
Quanto sia moralmente lecito difendersi con violenza dalla violenza: la domanda ci segue dagli albori del cristianesimo. Che ciò, ancorché lecito, sia talvolta inopportuno l’umanità lo sapeva già prima, quando preferiva la schiavitù al farsi massacrare. Il pacifismo diventò valore della sinistra con la prima guerra mondiale. Interpretata non a torto come scontro tra le classi dominanti di imperi e nazioni, i cui proletari ne portavano il peso contro i loro interessi. Salvo ricredersi davanti alle aggressioni nazifasciste, dalla guerra di Spagna in poi. E poi ridiventare pacifisti durante la guerra fredda, e oggi contro le spese militari.
La sinistra sosteneva che l’egoismo è prodotto dalla società. La collettivizzazione dell’economia avrebbe dovuto porre fine allo sfruttamento tra esseri umani ed educare l’uomo nuovo. Ricordiamo i movimenti per la pace, i campi della pace per giovani stranieri a Mosca e a Cuba. Che ad organizzarli fossero regimi molto militarizzati, lo si spiegava come provvisoria necessità, fin quando sarebbe esistita la minaccia esterna del capitalismo imperialista. Spiegazione usata ancora da Putin, che alla minaccia del capitalismo - del quale il suo regime è diventato esempio degenerato - sostituisce quella dell’omosessualità.
L’aspirazione d’educare col comunismo alla pace mal si concilia con le guerre ove fu l’Unione Sovietica. Volute non dai giovani cresciuti dopo il suo crollo, ma da coloro che per due generazioni furono educati ad anteporre la solidarietà proletaria ai nazionalismi. Capisco i pacifisti che ritengono la guerra un male tale da dover rinunciare a difendersi pur di evitarla: purché lascino agli aggrediti deciderlo. Indifendibili, invece, quelli che mettono il pacifismo in un’insalata russa con la nostalgia per l’esperimento comunista e/o con l’infatuazione per un regime che del comunismo ha gettato gli ideali conservando il peggio. Un abbraccio tra estremi di destra e di sinistra che offende milioni di morti in buona fede.