di Mauro Dell'Ambrogio
Come in molte specie animali, è connaturata negli esseri umani la distinzione tra apparentati ed estranei. Tra chi appartiene alla famiglia o alla tribù e chi invece ne è fuori. Le identità nazionali e le frontiere si sono costruite su questa distinzione, attestata da lingua o da caratteri somatici, e nel contempo l’hanno costruita, tramite assimilazioni ed epurazioni. L’identità è perfino cercata artificialmente ai fini di scontro, come nell’hooliganismo sportivo.
Il prima i nostri può avere una connotazione difensiva: fuori i frontalieri che ci rubano il lavoro. Ma anche offensiva: dobbiamo proteggere i Russi maltrattati in Ucraina. Dispute territoriali confondono difesa e offesa. Ma la territorialità pacifica non basta a rapporti sereni. C’è sempre qualcuno di meno nostro perché giunto o naturalizzato da poco, o perché di origini, credenze o abitudini non conformi a quelle che si presumono valere come standard identitario.
Gli ideali di fratellanza universale sono resi insostenibili dallo stato sociale contemporaneo, che deve limitare la solidarietà all’appartenenza. Ma nel contempo erige quest’ultima a pretesa di solidarietà. L’estremismo in direzione contraria è pure insostenibile: economia e sviluppo sarebbero distrutti da un “prima i nostri, poco importa se delinquenti o lavativi”. O da illusioni di autarchia. Il nazionalismo è però alimentato oggi dalla crisi della globalizzazione e delle ideologie politiche.
La politica è condizionata da questo malessere identitario. Si conquista e si conserva il potere additando un nemico. Chi persegue la convivenza più che lo scontro, chi si sottrae all’immediato calcolo di un interesse nostro necessariamente opposto a quello altrui, appare elitario e come tale da diffidare. Il prima i nostri esprime una potenzialità conflittuale, che solo le condizioni complessivamente privilegiate ci impediscono di sperimentare nelle tragiche conseguenze.